LA FEDE E IL SENSO DEL CONCRETO

Chi diventa discepolo di Gesù solo nel tempo della prosperità, facilmente, abbandonerà il cammino della fede nelle avversità. Così capita ai due discepoli di Emmaus. Questi fanno marcia indietro, dopo aver visto la morte di Gesù di Nazaret a Gerusalemme. Lasciano il cammino del discepolato per dirigersi verso un villaggio sconosciuto, allora come adesso, simbolo dell’ignoto e del non senso. Credono che tutto quello che è accaduto getti un velo oscuro su ciò che Gesù ha promesso. Sono delusi. Ma essi pensavano a un Gesù condottiero. Ed ora non accettano che Egli non abbia corrisposto alle loro attese. Talvolta, la tragedia delle nostre vite non sta in ciò che soffriamo, ma in ciò che crediamo di aver perso con la sofferenza. Per questi discepoli, infatti, la morte di Gesù è essenzialmente la perdita del loro progetto di liberazione. Così rivelano di essere stolti e tardi di cuore.

Ma la vita è davvero solo un fatto senza senso? Oppure dentro c’è una promessa, un adempimento di un messaggio e una missione? Quando perdiamo la capacità di leggere la storia e di intravedere in essa il filo rosso del senso, noi abbandoniamo la capacità di pensare e ci lasciamo invadere da una devastante sensazione di nullità.

Gesù, allora, si accosta loro, si fa compagno di viaggio e ascolta tutta la loro amarezza. Poi, rilegge tutto ciò che è accaduto a Gerusalemme alla luce delle Scritture. Il successo nella vita non sta in quello che uno fa ma nell’amore che dà. La croce è il segno più vero e concreto dell’amore.

E i due discepoli lo riconobbero allo spezzare del pane. Solo un gesto concreto apre loro la mente; li induce al riconoscimento, aprendone la coscienza alla verità. Non un’idea né una suggestione dell’anima, e nemmeno un affetto profondamente sentito li illumina. No, niente di tutto questo genera il riconoscimento del Risorto. Ma un gesto concreto, reale, dice l’identità di chi lo fa; dice la sua origine e il criterio che lo farà riconoscere per sempre.

La presenza del Risorto si riconosce dallo spezzare il pane. Il criterio è quello di una concretezza disarmante. La fede è visibile nella concretezza. Il vero è concreto. La resurrezione sottostà rigidamente al principio di realtà.

«Coloro che vi hanno creduto erano pescatori che sapevano riparare le reti, muratori capaci di costruire cattedrali, monaci abili nel dissodare e arare campi, vale a dire persone estremamente pratiche e concrete. Credere al Risorto era per loro solido come piantare grano o costruire una basilica romana. E anche più solido, perché si appoggiavano su questa fede per erigere la volta e il crinale del tetto.» (F. Hadjadj, Resurrezione, 7).

Sapremo rialzarci da questo momento difficile? Credo proprio di sì, ma solo se siamo capaci di credere che oltre la croce di questo tempo ci sia una resurrezione; e se sapremo andare oltre quel senso di delusione e di nullità che ci fa essere ‘stolti e tardi di cuore’.

Dobbiamo partire dal concreto della vita, se vogliamo esprimere la nostra fede nella resurrezione. Gesù risorto si è mostrato nella vita ordinaria e concreta dei suoi discepoli. Si è reso familiare nell’ordinarietà dell’esistenza. Se vogliamo vivere questo tempo, se desideriamo trasformarlo, dobbiamo ridare valore alla concretezza, perché la fede è il riconoscimento del significato di un fatto concreto.